Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

Maria Guarini, Il post-concilio e l'«actuosa participatio»

Aggiornamento: Ѐ uscita la Seconda Edizione ampliata ed aggiornata alle variazioni del nuovo pontificato: «La questione liturgica. Il rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae dal Vaticano II all'epoca dei ‘due papi’», pag.168, Euro 13. Per procedere all'acquisto [qui]
Tratto da: Maria Guarini, «La questione liturgica. Il rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Vaticano II», Ed. Solfanelli 2015, pag.136, Euro 11. Distribuito nelle librerie.
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Il post-concilio e l’“actuosa participatio”

La partecipazione attiva non consiste solo in un ‘fare’ materiale, o in un ‘ruolo’ da ricoprire oppure in un ‘protagonismo’ da scoprire, perché il vero Protagonista è il Signore e quella Liturgica è una vera Actio, Opera Sua e non dell’Assemblea. Partecipare è qualcosa di più complesso che corrisponde più a stati d'animo, predisposizioni e atteggiamenti interiori, apertura di cuore e consapevolezza di ciò che accade, attenzione desta e Adorazione, con l’alternarsi di momenti dialogati e di momenti in cui si partecipa in unione col Sacerdote… senza dimenticare i Sacri silenzi. Il tutto in un clima di solenne sacralità, di profonda compenetrazione e immersione nel Mistero. La partecipazione non è meno attiva se avviene con le facoltà dell’anima ed una presenza raccolta e coinvolta, rispetto ad un bla bla bla o a funzioni da svolgere, perché essa è un atto sacro di culto autentico; mentre invece la si è trasformata in qualcosa che assomiglia più ad una ‘sacra rappresentazione’, narrativa piuttosto che attuativa, actio dell’Assemblea invece che del Signore. L’agire, quello autentico delle scelte illuminate dalla Fede ed intessute di grazia, viene dopo, nella vita, e non è che conseguenza.

La “partecipazione attiva” o “actuosa participatio” alla Liturgia, non nasce dal Concilio, ma già ne troviamo accenni nella bolla Divini Cultus di Pio XI e nella Mediator Dei di Pio XII mentre, ancor prima, fu lo stesso Pio X ad assumere la terminologia “partecipazione attiva” nel linguaggio ufficiale, lasciando intendere che uno degli scopi che desiderava intraprendere nella sua riforma liturgica e pastorale era quello di far rinascere l’autentico spirito cristiano (compito che spetta ad ogni generazione di credenti) attraverso un’attiva partecipazione ai misteri da parte dei fedeli. Per questo indirizzò egli stesso il Movimento Liturgico a sviluppare e studiare bene il tema e i modi di attuazione. Il Motu proprio Tra le sollecitudini, del 22 novembre 1903, precisa infatti che “prima e indispensabile fonte è la partecipazione attiva”. Naturalmente, al di là di queste indicazioni Magisteriali pre-conciliari, che dimostrano ancora una volta come il Concilio doveva rinnovare e non “rifondare” la Chiesa, non possiamo pensare che la “actuosa participatio” non si realizzasse anche prima del concilio, per ogni anima credente che viveva con Fede i Sacri Misteri celebrati nella Santa e Divina Liturgia, rendendosi ad essa presente, così come ogni volta lo fa il Suo Signore.

Si dice che la Nuova Messa è più partecipata, confondendo il ‘partecipare’ col ‘fare’ qualcosa: andare a leggere, cantare, le preghiere dei fedeli, quasi che l’ascolto e l’immersione profonda in quanto sai che ‘accade’ non sia ‘partecipazione’… tenendo anche conto che il dialogo tra sacerdote e fedeli c'è anche nel Rito Antico e il Sacerdote – che non dà le spalle ai fedeli ma insieme sono rivolti al Signore – agisce in persona Christi, dimentica se stesso e nell’attenzione ai gesti e alle formule che hanno significati sublimi intraducibili, riesce davvero ad immedesimarsi in quanto accade. Chi muore e offre il Sacrificio è Cristo, ma noi, membra del suo Corpo mistico siamo in Lui.

Partecipare non significa capire tutto (è un mistero talmente grande ed inesauribile che ci si svela sempre ulteriormente), ma offrire la  vita unendola all’unico Sacrificio di Cristo, che rinnova qui adesso per me quell’unica morte redentrice in Croce. E il sacrificio ha compimento col pasto sacro, che ci dona il “pane disceso dal cielo” con i beni escatologici, quelli dei tempi ultimi inaugurati dal Signore: è il tempo che viviamo fino alla sua seconda venuta.

L’actuosa participatio è molto più di una mera “disposizione interiore dell’assemblea” o della persona singola. La disposizione interiore (porta di accesso) è unita alla consapevolezza, cui si affiancano fondamenti e novità, vetera et nova: mozioni e intuizioni, preghiere e sentimenti suscitati dallo Spirito che denotano la partecipazione con tutto il proprio essere a ciò che ‘accade’... occorre avere ben presente questo importante dato della ‘consapevolezza’ di ciò che si sta vivendo e che ‘accade’. Grande è la responsabilità dei Pastori per diffondere gli aspetti essenziali della Rivelazione sulla Redenzione: l’opera mirabile del Signore, la cui bellezza accende il cuore dei credenti disposti ad accoglierla e che diventa nel Santo e Divino Sacrificio il culto autentico da rendere a Dio, che poi si prolunga nella vita.
Parlare di consapevolezza, vuol dire presenza sia della dimensione intellettiva che di quella spirituale (nonché corporea, s’intende), in equilibrato connubio. Davvero ‘fare’ è soltanto quello che si compie materialmente? In realtà è più presente la dimensione del Mistero, quella del silenzio, dell’Adorazione. Non si vorrà sostenere che nel vivere consapevolmente e profondamente queste dimensioni, rapportate al momento e all’atto liturgico che si compie, c’è solo ‘passività’!

Forse nel nostro intimo accadono molte più cose di quante non possiamo né immaginare né aspettarci né intuire e che poi si traducono in scelte e in atti di vita quotidiana. Non è assolutamente un discorso intimista o spiritualista, ma una realtà sperimentabile, perché ci sono momenti così intensamente vissuti alla Presenza del Signore che quello che siamo e portiamo con noi: difficoltà, problemi, resistenze, doni e altro sono espressioni, scoperte, accadimenti di persone in relazione, che si svelano e non possono rimanere gli stessi se li esponiamo all’azione dello Spirito, che coinvolge la singola persona e contemporaneamente l’Assemblea di cui essa fa parte, che oltretutto non ha confini, perché si estende alla Chiesa di ieri di oggi e di domani, alla Comunione dei Santi, illustre sconosciuta per le nuove generazioni...

La richiesta di una actuosa participatio dei fedeli al culto, più volte espressa nei documenti conciliari – e nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che sottolinea che l’espressione riguarda il servizio comune, riferito a tutto il popolo santo di Dio (cfr. CCC 1069) – viene di solito interpretata nel senso di soluzione alla condanna ad un preteso ruolo “passivo” a cui la liturgia tradizionale avrebbe relegato i fedeli.

Possiamo davvero dire che non c’è nulla di « attivo » nell’ascoltare e far proprie, nel rispondere alle preghiere del sacerdote, nel proclamare il Gloria e il Credo, il Sanctus, nel recitare il Confiteor, nell’adorare, nell’attendere, nell’ascoltare, nell’intuire, nell'accogliere, nel commuoversi?
Leggiamo in Joseph Ratzinger: “Introduzione allo spirito della liturgia”, p. 167:
«In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola « partecipazione » rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte».
Quale sarà dunque in realtà questa “actio”, quest’azione a cui tutta l’assemblea è chiamata, ora come sempre, a partecipare? Come accenna l’allora card Ratzinger che nel testo citato così continua:
«Con il termine «actio», riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il «canone» – è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del temine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio. […] Ma come possiamo noi avere parte a questa azione? […] noi dobbiamo pregare perché (il sacrificio del Logos) diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta».
Qui, all’interno della fornace ardente che è il centro stesso della fede cristiana, siamo realmente a miglia di distanza dalle banalizzazioni antropocentriche che vorrebbero imporci. E infatti, sono di nuovo parole del Papa, dallo stesso testo citato:
« La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui è dato oggi di assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato  dell’essenziale.
Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia ».
Il passaggio della liturgia come forma stabile di dramma sacro alla liturgia come dramma poetico nascente dall’arte inventiva dei singoli è una delle innovazioni più visibili della riforma. L’elemento più evidente è che il principio di creatività elide del tutto il valore delle rubriche per effetto di un malinteso spirito di indipendenza (dal mistero che in aeternum stat) e del rifiuto delle essenze. Così il sacro trascendente viene trasformato nel poetico immanenziale dell’uomo.
Il principio della creatività, per una liturgia «più viva e partecipata», produce due effetti. Primo, muta l’azione sacra in dramma teatrico. Secondo, trasforma in privata l’azione del celebrante che ha invece sempre carattere pubblico e sociale, anche quando è solitaria; così impedisce il consenso e il concento dei partecipanti al culto, che dovrebbe farsi uno sensu ideoque una voce1.

Discorsi come questo forse non si fanno abbastanza, tanto siamo proiettati unicamente nel ‘fare’ materiale – che non va sottovaluto ma neppure assolutizzato – e in un nefasto orizzontalismo che ha accantonato la Trascendenza ed è sconcertante che essi possano sembrare complicati anche per dei sacerdoti; cosa che si deve constatare con doloroso rammarico.
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1. Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX, ed. Lindau, Torino 2009, pag. 563

3 commenti:

don gianluigi ha detto...

Il riconoscere l'actuosa pertecipatio di per sé è più che giusto, lo affermava già Pio XII nella Mediator Dei, anche gli art. del CCC che tu citi sono corretti se accompagnati con gli altri che puntualizzano la natura e il ruolo del sacerdote. Già la Mediator Dei affermava una netta distinzione tra laici e sacerdoti, non per disprezzare il ruoli dei primi, bensì per specificare che «Ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l'imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale, in virtù della quale, come rappresentano davanti al popolo loro affidato la persona di Gesù Cristo, così rappresentano il popolo davanti a Dio»
Quindi il sacerdote quando celebra, in alcuni momenti rappresenta e guida il popolo che si rivolge al Padre, come nell'orazione di colletta: infatti, dopo aver detto Oremus, si ferma per raccogliere le preghiere del popolo e porgerle al Padre; in altri agisce in persona Christi e dunque rende presente il Signore al popolo.

Anche il CCC lo specifica al n° 1142: «Ma “le membra non hanno tutte la stessa funzione”( ⇒ Rm 12,4 ). Alcuni sono chiamati da Dio, nella Chiesa e dalla Chiesa, ad un servizio speciale della comunità. Questi servitori sono scelti e consacrati mediante il sacramento dell'Ordine, con il quale lo Spirito Santo li rende idonei ad operare nella persona di Cristo-Capo per il servizio di tutte le membra della Chiesa [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Presbyterorum ordinis, 2 e 15]. Il ministro ordinato è come “l'icona” di Cristo Sacerdote. Poiché il sacramento della Chiesa si manifesta pienamente nell'Eucaristia, è soprattutto nel presiedere l'Eucaristia che si manifesta il ministero del vescovo e, in comunione con lui, quello dei presbiteri e dei diaconi.»

Per dirla tutta, è pur vero che il ruolo del sacerdote non è così chiaramente indicato come nei documenti tradizionali, sia perché ne parla come di "icona", ma icona indica un'immagine che rimanda a Cristo, ma non s'identifica con Lui, mentre il sacerdote s'identifica perfettamente tanto che può affermare: «Questo è il mio corpo». Inoltre accomuna un po' frettolosamente presbiteri e diaconi come partecipi del ruolo dei Vescovi di presiedere l'assemblea. Ma non è vero, il diacono può presiedere la preghiera, ma non è sacerdote e non può partecipare alla funzione di Cristo capo che santifica il suo popolo, qui c'è proprio una forzatura. Per il resto anche in questo caso è tutta questione di ermeneutica. Se si interpreta alla luce della Tradizione tutto va bene, sennò andiamo a finire su un terreno minato

Don Camillo ha detto...

"funzione propria a ciascuno"

a getto, ti dico che sì è vero hanno forzato il concetto, ma nella sostanza non vedo trappole, anche perchè se in un paragrafo sono vaghi (quindi i novatori han trovato un punto d'appoggio) nel paragrafo successivo si riquadra sull'aspetto sacerdotale tradizionalmente inteso...

... putroppo siam sempre là a filare....

Anonimo ha detto...

... putroppo siam sempre là a filare....

Sì, purtroppo, perché vediamo che le applicazioni portano nella direzione che trasforma quella virgola fuori posto in una voragine... e la trappole non sono nel resto, rettificato e bilanciato; ma si condensano lì!